09 Settembre, 1999 |
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In collaborazione con il CoDiCi di Verona
Ai lavoratori malati non è sufficiente dimostrare di essere in casa per avere diritto al trattamento economico di malattia: occorre anche aprire la porta al medico fiscale, non essendo una giustificazione valida affermare di non aver sentito il campanello.
Questo il principio sancito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di un lavoratore al quale era stata tolta l'indennità di malattia perché non aveva aperto al medico dell'INPS, risultando in tal modo assente.
L'uomo aveva sostenuto di essere in salotto con un amico e che nessuno dei due aveva sentito suonare, lamentandosi oltretutto del fatto che il medico non avesse suonato il campanello ma si fosse limitato a "bussare" alla porta. La Suprema Corte afferma invece che "l'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale".
I Supremi Giudici sottolineano, inoltre, che, essendo la sala vicino
all'ingresso, i due uomini avrebbero dovuto sentire i colpi sulla porta,
rilevando come il verbo "bussare", inteso nel significato di "picchiare
ad una porta per farsi aprire", venga usato abitualmente come sinonimo
di "suonare", vista "l'identica finalità delle due azioni". (18
giugno 1999)
Sentenza della Sezione Lavoro n. 5000/99 depositata il 22 maggio 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Lavoro
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da .......
Ricorrente
contro INPS - Istituto Nazionale Della Previdenza Sociale, in persona
del legale rappresentante pro temporte elettivamente domiciliato in Roma,
Via della Frezza, 17 presso l'avvocatura Centrale dell'Istituto rappresentato
e difeso dagli avvocati Vincenzo Cerioni, Giuseppe Gigante, giusto mandato
in calce al ricorso; resistente con mandato avverso la sentenza 222/95
del Tribunale di Lodi, depositata il 31/10/95 R.G.N. 1221/94; udita la
relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/99 dal Consigliere
relatore ... udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale
Dott. Cinque Alberto, che ha concluso per l'accoglimento del quinto motivo,
rigettato gli altri.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Pretore di Lodi, depositato il 3 marzo 1994, M. D.
conveniva in giudizio la S.r.l. Beta Utensili, sua datrice di lavoro, e
l'INPS. Assumendo di non essersi assentato dalla propria abitazione durante
le fasce orarie di reperibilità dei giorni 2 e 3 luglio 1993, chiedeva
la condanna della Beta Utensili al pagamento della somma di lire 163.693
a titolo di retribuzione, e di entrambi i convenuti al pagamento dal trattamento
economico di malattia [1] per i giorni 1, 2, 3 e 5 luglio, pari a lire
479.602, oltre interessi e rivalutazione. La Beta Utensili, costituitasi,
conciliava la controversia relativamente alla sua posizione, mentre l'INPS
restava contumace. Con sentenza del 20/23 giugno 1994 il Pretore
accoglieva la domanda, condannando l'INPS a corrispondere al ricorrente
il trattamento economico di malattia dal quale era stato dichiarato decaduto.
Su appello dell'INPS, cui resisteva il lavoratore, il Tribunale di Lodi
riformava la decisione di primo grado. Rilevava il Tribunale che dalla
certificazione redatta dal medico fiscale risultava che il sig. D. era,
assente dal suo domicilio il 2 luglio 1993; che l'assenza rilevante non
va intesa necessariamente come mancata presenza presso l'abitazione, essendo
giustificata la sanzione della decadenza del trattamento economico di malattia
non solo per il lavoratore che si assenti da casa ma anche per quello che,
pur presente in casa, per incuria o negligenza o comunque per motivi non
apprezzabili sul piano giuridico e sociale, renda di fatto impossibile
la visita medica di controllo.
Dal certificato del medico risultava che lo stesso si era recato presso
l'abitazione del lavoratore ed aveva suonato e bussato senza esito alla
porta di abitazione; irrilevante era, per il Tribunale, la prova fornita
dall'appellato, di essersi trovato presso la propria abitazione al momento
della visita, non essendo stata accompagnata dalla prova di un eventuale
fatto che avesse impedito l'avvertimento della chiamata. Per la cassazione
di tale sentenza, pronunciata il 13 ottobre 1995, ricorre, formulando cinque
motivi di annullamento, il sig. M. D. L'INPS ha depositato solo procura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la difesa del ricorrente denuncia violazione e
falsa applicazione dell'art. 342 c. p. c. con inammissibilità o
nullità dell'appello.
Sostiene che l'INPS, nel proprio atto di appello, "non ha censurato
in alcuna sua parte la sentenza di primo grado, limitandosi a sostenere
l'erronea valutazione del certificato di assenza al domicilio redatta dal
sanitario".
Rileva che dagli atti di causa risultava che "il medico ha dichiarato,
come risulta dalla lettera dell'USSL, di non aver suonato il citofono ma
bussato alla porta" e che in nessun atto risulta dichiarato che il medico
abbia suonato il campanello".
Da ciò deriverebbe la inammissibilità o nullità
dell'appello, essendo questo fondato su una circostanza accertata in causa;
e non essendo soddisfatto il requisito della specificità dei motivi
di tale mezzo di impugnazione.
Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
dell'art. 2699 c.c., la difesa del ricorrente sostiene che il referto medico
redatto dalla dott.ssa Vavalà non riveste la qualifica di atto pubblico
per vizio di forma, essendo sprovvisto di numero ed essendo incerta la
data nella quale è stata effettuata la visita. L'USSL aveva
infatti comunicato che la visita si presumeva effettuata il 2 e non il
3 luglio perché la stessa, secondo il medico incaricato del controllo,
era inserita, fra quelle del 2 luglio. Avrebbe errato pertanto il
Tribunale a fondare sul certificato (quale atto pubblico) la propria decisione,
privilegiandolo sulle altre prove, testimoniali e documentali, acquisite
dal Pretore. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa
applicazione dell'art. 2700 c.c., nonché omessa e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo, la difesa del ricorrente rileva che il
referto del medico di controllo comprova, con fede privilegiata e fino
a querela di falso, che il medico si è recato presso l'abitazione
del lavoratore; e che da tale circostanza si può, al massimo, dedurre
che il medico abbia suonato o bussato senza esito. Ogni altra ipotesi,
compresa quella che il lavoratore, pur presente in casa, non abbia udito
suonare o bussare, è possibile senza incidere sulle dichiarazioni
del pubblico ufficiale. Assume che nel caso di specie il D. aveva
provato di essere stato presente in casa, mentre risultava documentalmente
che il medico non aveva suonato il campanello (che pure esisteva) ma si
era limitato a bussare. Il Tribunale ha sbagliato nel dedurre dal referto
che il medico si fosse comportato secondo la dovuta diligenza, posto che
il referto nulla dice e prova sul punto, mentre sarebbe stato provato che
il medico aveva bussato e non suonato il campanello.
Con il quarto motivo, denunciando omessa e contraddittoria motivazione
su punti decisivi della controversia, la difesa del ricorrente lamenta
ancora che il Tribunale non ha considerato che il medico non si era comportato
con la dovuta diligenza, limitandosi a bussare alla porta e non usando
il campanello elettrico; e non ha inoltre valutato che nessuna negligenza
poteva imputarsi al lavoratore, essendo stato provato che lo stesso era
in casa, nella sala (ambiente molto vicino alla porta di ingresso), in
compagnia del sig. L. A., e che nessuno dei due aveva inteso bussare.
Se vi è negligenza, questa è del medico di controllo che
non ha bussato con sufficiente energia per farsi sentire.
Con il quinto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art.
152 disp. Att. C.p.c., nonché ultrapetizione e vizio di motivazione,
la difesa del ricorrente lamenta che il Tribunale ha condannato il Sig.
D. al rimborso delle spese del grado in favore dell'INPS senza che l'Istituto
avesse richiesto tale condanna e senza alcuna motivazione sulla sussistenza
della manifesta infondatezza e temerarietà della lite, requisiti
richiesti dal citato art. 152 per la condanna del lavoratore alle spese
nelle controversie aventi ad oggetto prestazioni previdenziali.
Il primo motivo di ricorso - con il quale si lamenta l'assenza di motivi
specifici di appello nell'impugnazione proposta davanti al Tribunale -
è infondato.
L'avere l'INPS sostenuto "l'erronea valutazione del certificato di
assenza dal domicilio redatta dal sanitario" costituisce motivo specifico
di impugnazione.
Che poi la valutazione fosse o meno erronea circostanza che attiene
alla fondatezza della censura e non può certo incidere sulla ammissibilità
o nullità dell'atto di appello.
Il secondo, terzo e quarto motivo che si trattano congiuntamente in
considerazione della loro interdipendenza, sono anch'essi infondati.
Il certificato redatto da un medico convenzionato con l'INPS per il controllo
della sussistenza delle malattie del lavoratore, ai sensi dell'art. 5 della
legge 20 maggio 1970 n. 300 [2], è atto pubblico che fa fede, fino
a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale
che l'ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo
attesta aver compiuto od essere avvenuti in sua presenza (cfr., in una
fattispecie relativa ai certificati dei medici convenzionati con l'INAM,
Cass., 14 gennaio 1987 n. 217). La mancanza del numero non è
idonea ad inficiare la validità dell'atto, così come non
lo è la dedotta incertezza sulla data di effettuazione della visita,
data che il Tribunale ha individuato nel 2 luglio 1993 (cfr. pag.
3 della sentenza) e che lo stesso ricorrente, nella ricostruzione operata
nella prima pagina del ricorso per cassazione, avvalora come esatta.
Dal certificato risulta, come argomenta la difesa del ricorrente con il
terzo motivo, che il medico si è recato presso l'abitazione del
lavoratore; avendo attestato di non averlo trovato in casa, si può
dedurre che il medico abbia suonato o bussato senza esito. Al riguardo
va ricordato che l'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di
controllo per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L.
12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modifiche, nella legge 11 novembre
1983 n. 638 [3], prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore
medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia - non coincide
necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione,
potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore,
pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo
sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano
giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe
al lavoratore (v. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994
n. 2816; 14 maggio 1997 n. 4216). Nella fattispecie in esame il Tribunale,
nel contrasto tra la certificazione del medico, dalla quale si deduce che
lo stesso aveva suonato alla Porta e la dedotta testimonianza secondo la
quale il lavoratore, insieme ad un amico, si trovava nella sala, molto
vicina all'ingresso, e nessuno dei due aveva inteso suonare o bussare alla
porta, ha privilegiato le risultanze della certificazione in considerazione
del suo carattere di atto pubblico; e, in effetti, la testimonianza invocata
dal ricorrente finisce con il negare attendibilità alle dichiarazioni
del medico, anziché provare un apprezzabile motivo che abbia impedito
di percepire la suonata o bussata di questi.
Quanto alla circostanza (sottolineata con il quarto motivo) che il
medico avrebbe "bussato" alla porta e non "suonato" il campanello, omettendo
quindi di comportarsi con la dovuta diligenza, rileva la Corte in primo
luogo che la dedotta vicinanza della sala alla porta di ingresso avrebbe
dovuto comunque consentire l'avvertimento dei colpi sulla porta. Ma si
deva anche rilevare che il verbo "bussare", sorto - nell'epoca in cui non
esistevano sistemi elettrico-acustici di chiamata - con il significato
di "picchiare ad una porta per farsi aprire", è usato attualmente,
nell'uso corrente, come sinonimo di "suonare", attesa la identica finalità
delle due azioni.
L'espressione, peraltro, a quanto risulta dalla sentenza impugnata
(pag. 4), non è contenuta nel certificato del medico ma nella
lettera proveniente dall'amministratore straordinario dell'USSL, n. 56;
e lo stesso Tribunale rileva che nella citata lettera - il cui testo, contravvenendo
al noto principio della autosufficienza del ricorso per cassazione, non
è riportato in questo atto - "... non sì dice che il medico
stesso non abbia suonato il campanello ma solo che lo stesso ha bussato
insistentemente alla porta di abitazione ... ". Il quinto motivo
è invece fondato nei limiti appresso precisati. Non vi è
stata ultrapetizione, atteso che la condanna della parte soccombente alla
rifusione delle spese in favore dell'altra parte, ai sensi dell'art. 91
del codice di procedura civile, costituisce un effetto normale della soccombenza
e non abbisogna di espressa richiesta della parte vittoriosa Vi è
stata, però. violazione dell'art. -152 disp. Att. c.p.c., norma
che, abrogata dall'art. 4, comma 2, del D.L. 19 settembre 1992, n. 384,
convertita in legge 14 novembre 1992 n. 438, è stata reintrodotta
nell'ordinamento a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.
134 del 13 aprile 1994, che ha dichiarato la illegittimità della
norma abrogatrice.
Ai sensi dell'art. 152 citato la condanna alle spese del lavoratore
soccombente nei giudizi per ottenere prestazioni previdenziali è
subordinata alla manifestata infondatezza e temerarietà della domanda.
La sentenza impugnata ha invece condannato il lavoratore alle spese in
favore dell'INPS in forza del solo principio della soccombenza, senza valutare
la sussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 152 citato. Per
questa parte la sentenza va cassata e, non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con la constatazione
che la domanda, pur manifestamente infondata, non è temeraria, donde
l'esonero del lavoratore soccombente dall'obbligo di rifusione delle spese
all'INPS.
Nessun provvedimento va preso in ordine alle spese di questo giudizio
di legittimità, non avendo l'INPS svolto attività difensiva
in questa sede.
Per questo motivo
La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso; accoglie il quinto
motivo; cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e, decidendo
nel merito, dichiara il ricorrente non tenuto al pagamento delle spese
del giudizio di appello nei confronti della controparte; nulla per le spese
di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 26 gennaio 1999
Depositata in Cancelleria il 22 maggio 1999
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